mercoledì 11 luglio 2012

Avignone 2012: Benvenuti nel tempio della scena

da 'La Regione Ticino' dell'11 luglio 2012

Ben 1’161 spettacoli fino al 28 luglio annoverano il Festival d’Avignone tra i capoluoghi mondiali del teatro, dove albergano due anime con un programma ufficiale e uno ‘off’. Alla sua 66esima edizione, l’evento trasforma la provenzale città dei papi in pulsante località artistica dove nascono palcoscenici dalle cantine, le case si aprono per diventare bar o ristoranti. Numeroso il pubblico che risponde alla vasta offerta del cartellone con spettacoli di ogni genere. Nostra visita nella magica località francese.

Arrivando ad Avignone si percepisce immediatamente che la provenzale città dei papi è stata invasa e conquistata da quel teatro democratico difeso un tempo da Jean Vilar, fondatore del Festival d’Avignone nel 1947, oggi alla sua 66esima edizione. Capoluogo regionale del dipartimento Vaucluse, Avignone in occasione del festival diventa dal 7 al 28 luglio capoluogo artistico europeo.
Due anime albergano il teatro avignonese, e l’appellativo impietoso che portano non è che un indizio alla diffidenza e differenza che reciprocamente le contraddistingue: il festival In e quello Off. Facilmente riassumibili in Ufficiale e Non.

Il Festival Off

Basta citare il numero degli spettacoli che lo compongono per farsi un’idea della vastità del programma: 1161! Mura, portoni e lampioni sono tappezzati da locandine che raccontano questo festival ‘alternativo’, nato autonomamente negli anni sessanta su iniziativa di alcuni artisti avignonesi stufi di non essere invitati all’In di Vilar, e oggi più vivo che mai. Le pièce rappresentate gridano quest’anima sovversiva e popolare, dove ognuno porta la sua voce e il suo teatro: sui muri leggiamo a lettere cubitali che Godot est arrivé e che Juliette hait Romeo . Il teatro non è morto e non è per pochi! Lungo l’arteria principale (Rue de la République) che ci porta verso il centro della città fortificata – la Place de l’Horloge – e per tutti gli stretti vicoli, le compagnie si esibiscono in una parata degna di quei giullari che attiravano a corte gli spettatori. Gli attori, vestiti per la scena, ci richiamano alla propria corte, grazie anche a un volantinaggio inarrestabile e invincibile. Per districarsi nell’ardua scelta un programma è distribuito gratuitamente, e la scuola elementare Thiers si muta nel Village du Off dispensando ogni informazione.

Tutto sembra trasformarsi in questo mese estivo ad Avignone: nascono teatri dalle cantine, le case si aprono per diventare bar e ristoranti, gli abitanti si riscoprono imprenditori e tutto ruota attorno all’arte. La rue des Tenturiers è il centro pulsante di questa kermesse, tavolini in ferro battuto e vecchie sedie colorate, cucina etnica e du terroir , librerie gremite di volumi antichi e terrazze assolate ospitano il fiume di festivalieri che si incontrano e opinano sulla qualità di quanto appena visto.
Gli spettacoli sono di tutti i generi, e qualità e serietà non sono sempre all’altezza della quantità. Se infatti, per partecipare al Festival In bisogna godere di comprovata fama internazionale in ambito artistico, una compagnia può partecipare all’ Off piuttosto facilmente: basta avere i soldi per affittare una sala. Il prezzo da pagare è alto, ma la possibilità di essere visti dai direttori artistici delle sale parigine e rischiare di essere selezionati per la stagione successiva è impagabile.


Il Festival In


Vincent Baudriller e Hortense Archambault, direttori artistici, propongono quest’anno un programma particolarmente europeo con un occhio di riguardo per l’Inghilterra. Il teatro ritorna alla sacra importanza del testo, e lo vediamo già dalla prima proposta in scena nella Corte d’Onore del Palazzo dei papi in apertura alla 66esima edizione: l’adattamento alla scena de Il Maestro e Margherita , il celebre romanzo del russo Michail Bulgakov, montata per l’occasione dall’artista associato del Festival, l’inglese Simon McBurney.
Un capolavoro della letteratura che si fa capolavoro di scena, uno spettacolo che racconta magistralmente della compassione, della debolezza, del demonio e dell’amore, la poesia di Bulgakov diventa parola viva su un palco dalla scenografia eccezionale (il Palazzo dei papi), e noi voliamo su Mosca insieme a Margherita accompagnati dalle parole del Maestro .

All’In si possono vedere, tra gli altri: l’esposizione Rachel, Monique di Sophie Calle, Il Gabbiano (Chekov) di Arthur Nauzyciel, i pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore di Stéphane Braunschweig, Refuse the hour di William Kentridge, Nouveau Roman di Christophe Honoré, e The four seasons restaurant di Romeo Castellucci.

Un programma appetitoso e per palati fini, ordinato e ben presentato, che vive insieme alla vitalità del Festival Off, forse più disordinato, meno scontato e più arrabattato.
È ciò che conferisce lo charme a questa città dal duplice volto, dove sacro e profano si fondono a dimostrare che l’arte, ebbene sì, e per fortuna, è anche questo.

venerdì 11 maggio 2012

le anime noir di palermo - intervista con gian mauro costa

da 'La Regione' del 11.5.2012

L’intrigo si fa mediterraneo nella rassegna Tutti i colori del giallo , giunta con successo alla sua ottava edizione, svoltasi anche quest’anno nelle sale del cinema Lux a Massagno. Dalle coste campane di Napoli sino a Barcellona, passando per Palermo, per sfiorare nelle diverse sue sfumature il Sud, con i suoi colori, i suoi sapori, le sue storie da raccontare.

La serata di ieri è stata dedicata alla Sicilia, terra del giornalista e scrittore Gian Mauro Costa. Abbiamo avuto il privilegio di farci accompagnare dall’autore palermitano nella sua affascinante, e dalle molteplici sfaccettature, città, prima dell’incontro con il pubblico che lo ha visto protagonista insieme a un grande nome della letteratura noir siciliana, Santo Piazzese (già presente a Massagno nel 2005 e nel 2009).

Un viaggio nella letteratura e non solo, per scoprire che cosa si nasconde in una città e nelle anime di chi la vive. Gian Mauro Costa, autore di Yesterday (Sellerio, 2001) e Il libro di legno (Sellerio, 2010) ci ha innanzitutto spiegato quanto conti, per lui, la sua città:
« Palermo è la vera protagonista di ciò che scrivo. Non riuscirei a parlare di una città che non sia la mia, la conosco molto bene, ma continua comunque a riservarmi angoli da scoprire. Credo che la letteratura contemporanea, in particolare quella noir, sia un tipo di narrativa che permette di conoscere meglio le città. Lo scrittore deve raccontare i luoghi, le atmosfere, descriverli bene per dare spessore e credibilità ai personaggi. Nell’800 era la letteratura d’avventura che permetteva questa esplorazione meticolosa, oggi è quella noir ».

Una città è fatta anche di antri oscuri, di bassifondi, come può essere l’uomo. Esiste un paragone tra il viaggio nella città e il viaggio all’interno di sé?
«Sì al movimento spaziale corrisponde un movimento interiore, alla topografia corrisponde anche una descrizione dei luoghi interiori e dei luoghi dell’anima. Palermo è ricca di queste zone d’ombra sordide, e i personaggi rispecchiano questa situazione. Non ho mai fatto scelte manichee, tra il bene e il male, e preferisco che anche i personaggi si muovano in questi contorni grigi. Palermo è una città di grandissime sfumature, e al contempo della coesistenza di bene e male portati al massimo. Non ho la pretesa nei miei romanzi di affrontare le grandi persone, i grandi malesseri di Palermo. Preferisco arrivare alla percezione di queste problematiche, che fanno da sfondo, attraverso piccole storie e soprattutto piccoli personaggi».

In questa scoperta della città e del personaggio, si può azzardare un altro parallelismo, tra psicoanalisi e indagine investigativa gialla?
«Ho pensato anche io che fosse così. Nel mio primo romanzo, Yesterday, questo collegamento, questa familiarità tra indagine gialla e investigazione dell’anima è molto forte e presente. Ma la psicoanalisi si rivelerà un’arma spuntata per il personaggio che vi ricorre, al contrario dell’indagine criminale. Ed è forse quello che per certi aspetti penso oggi anche io di questa terapia che non fornisce soluzioni, come un giallo, ma accomodamenti».

Perché scrivere romanzi gialli?
«Ho iniziato ad amare molto la lettura gialla contemporanea proprio perché mi permette di viaggiare insieme ai personaggi. Mi piace il giallo meditativo, un po’ malinconico. Mi piacciono i blues delle città. Nonostante tutto ciò io non mi sento un giallista, non cerco la trama perfetta, gli incastri. A me interessa di più l’aspetto antropologico proprio del noir. Quell’andare dietro a cose che sembrano portare fuori dalla normalità».

È difficile parlare in un romanzo del crimine organizzato?
«Sì, molto. Il confronto con la mafia a Palermo è inevitabile, scontato, ma allo stesso tempo difficile. Penso che sia un po’ presuntuoso immaginare di poter comprendere in un libro un fenomeno così complesso come la mafia. C’è riuscito solo Sciascia, in qualche modo. Credo che, per fare comprendere meglio il fenomeno, invece di parlare di grandi avvenimenti, di stragi, sia meglio raccontare piccole storie, che sono indicative. La cosa più forte della mafia è il suo condizionamento sulla vita quotidiana, sulla vita spicciola. Quindi è da lì che secondo me emergono le riflessioni su questo fenomeno».
I piccoli personaggi di Gian Mauro Costa torneranno tra due mesi con l’uscita del suo nuovo romanzo, Festa di piazza , per farci esplorare un nuovo aspetto di questa grande città.

martedì 1 maggio 2012

in città con il naso all'insù




da 'Azione' del 30.4.2012

Ricerca artistica, storie da raccontare e provocazioni trovano spazio sui muri di edifici, nella legalità. Un’iniziativa di Lugano per valorizzare la creatività giovanile.

I muri delle nostre città si colorano, si riempiono di scritte e graffiti. Non si tratta più di giudicare se sia un’arte vandalica o meno. Nemmeno di ostinarsi a criticare questi ragazzi che imbrattano muri. Si tratta semplicemente, oggi, di camminare con lo sguardo rivolto verso l’alto, per scoprire con sorpresa che qualcuno ha pensato di illustrare pareti cittadine dimenticate da tempo. In un modo diverso. Graffiti, street art, writer, sono parole ormai entrate a far parte del nostro vocabolario, e da tempo ormai i quesiti aperti sono molteplici. È lecito lasciare che questi giovani autoproclamatisi artisti pitturino a loro piacimento i muri della città? Va loro concesso uno spazio? E non è che poi, questi ragazzi perderanno l’ispirazione perché ciò che interessa loro è l’illegalità? Del resto, lo stesso Banski, l’anonimo celebre writer originario di Bristol che ha elevato la Street Art ad Arte, ha fatto dell’illegalità uno dei punti cardine del suo successo.

Le domande non servono più: a poco a poco la città risponde da sola. Lugano ha deciso infatti di concedere diversi spazi a giovani artisti che si dedicano a graffiti e stencil (maschere normografiche), promuovendo questo tipo di arte – che come tutte le nuove correnti artistiche ha bisogno di correre sui binari secondari appartati prima di poter essere definita tale – e incoraggiando i giovani alla creazione. Il progetto si chiama Arte Urbana Lugano.

Un esempio concreto delle attività promosse dal progetto è ammirabile oggi in via Lavizzari 5, a Lugano. Si tratta dell’opera muraria Pietro non torna indietro di Agostino Iacurci, giovane venticinquenne pugliese che unisce sapientemente l’arte illustrativa ai murali, aprendo porte a nuovi mondi variopinti su muri grigi. Il murale è stato realizzato in una settimana (dal 2 all’8 aprile 2012) durante la quale era possibile osservare in diretta il lavoro dell’artista. Numerosi i passanti che invece di camminare guardandosi la punta delle scarpe, hanno alzato lo sguardo e, procedendo col naso all’insù, si sono chiesti che pubblicità fosse mai quell’enorme uomo in bicicletta. Un rappresentante di Arte Urbana Lugano rispondeva ai curiosi che non si trattava di un’iniziativa commerciale, bensì d’arte. E che Agostino, il ragazzo che si arrampicava sulle impalcature, aveva già eseguito interventi urbani a Roma, Torino e nel deserto del Sahara, ed era stato chiamato dalla Città di Lugano, per colorare un muro privato. Tutti i passanti ripartivano soddisfatti.
Ho approfittato della pausa pranzo dell’artista, un trancio di pizza che lo ha fatto scendere dall’impalcatura, per chiedergli come avesse cominciato a fare quel lavoro.

«Facevo graffiti quando stavo a Foggia, dove il limite tra legale e illegale è molto sottile. Non si trattava di farli in clandestinità, li facevamo e basta. Poi ho smesso, sono andato a Roma a studiare arte, e ho iniziato a fare tele, incisioni, illustrazioni. Ma sono poi tornato al muro, con tutto quello che di nuovo sapevo fare».

Però lo spirito dei graffiti di Foggia è diverso da quello degli interventi urbani promossi dalle istituzioni, e Agostino mi racconta che «i graffiti sono divertimento puro, riferito unicamente a me e ai miei amici. Lo spirito era molto più bello. Adesso si tratta di un nuovo equilibrio tra professione e passione, che per fortuna posso unire. Nei graffiti c’erano solo le mie aspettative, non mi importava nulla della città. Ora ho un altro atteggiamento mentre faccio questo lavoro. Cerco di capire come reagisce la città, come stanno i miei lavori dentro lo spazio urbano. Anche perché ora non posso più ignorare quello che succede attorno a me. Diciamo che è l’esperienza è diventata più seria, anche se io cerco di sdrammatizzare coi soggetti». Sul muro di via Lavizzari sta comparendo un uomo in bicicletta sotto una scia rossa a S. Sorge spontaneo chiedergli da cosa nascano i suoi soggetti:«Dal mio immaginario. Il mio stile è più o meno illustrativo, ma cerco di portarlo fuori dalle illustrazioni, svincolarlo dal racconto. L’illustrazione si fa così incipit di un racconto che poi il cittadino è chiamato a inventare. Cerco soggetti semplici, intelligibili, che contemplino la figura umana: alla fine è questo che favorisce la comunicazione. Li metto in un vuoto, nel nulla, gli faccio fare un’azione banale a tutti riconoscibile, un gioco in equilibrio tra il surreale e il racconto mancato. Anche qui – in via Lavizzari - c’è un incipit: la luce che diventa il raggio rosso e acceca l’uomo in bicicletta. Lui produce la luce con la dinamo, illumina il cammino, ma il suo cammino è cieco. E poi, ognuno ci può vedere quello che vuole. Cerco anche un nesso con il luogo, che c’è sempre, ma quella è la mia, di storia». E più la storia è personale più la curiosità aumenta, quale sarà il nesso tra il ciclista accecato raffigurato sul muro e la città di Lugano però, Agostino non lo vuole rivelare, perché altrimenti «sembrerebbe una chiave di lettura obbligatoria all’opera». Ci svela però che in Pietro non torna indietro c’è Pietro Gori, l’anarchia, il suo punto di vista sul pensiero utopico, e la proprietà privata (http://www.agostinoiacurci.com/).

La facciata di via Lavizzari non è l’unica ad essere scampata a un grigio destino urbano. C’è il tunnel di Besso, che sarà ricoperto dalle opere di giovani artisti del nostro territorio, e prossimamente anche il muro sul fiume di fronte allo Studio Foce. Anche queste iniziative sono promosse da Arte Urbana Lugano. Valeria Donnarumma, Giacomo Grandini e Natalie Soldini confermano la mia idea a proposito della tendenza attuale: «A Lugano abbiamo grandi musei e gallerie, ma nessuno si occupa dei giovani, che spesso devono andare via per trovare spazio. Noi li facciamo lavorare. La street art è la tendenza artistica del momento, ed è giusto mettere Lugano a livello delle altre città». Mi chiedo nuovamente però, se offrendo degli spazi appositi non si snaturi il principio stesso, provocatorio, della street art. Per i tre responsabili di Arte Urbana Lugano questo «dipende. Certo, c’è chi lavora in modo provocatorio e stuzzica situazioni che noi non possiamo alimentare come Città. Ma è giusto comunque che l’artista sia libero di provocare, è anche il suo scopo. La maggior parte dei movimenti d’arte in fondo nasce in maniera sovversiva e si istituzionalizza in seguito, e non per questo perde di valore. Si impara a nascondere la provocazione tra le righe, quando si è meno liberi. Rimane un commento sociale, senza bisogno di ricorrere necessariamente all’illegalità». E chissà se in questa città ci sono writer che chiedono il permesso, per pitturare le pareti. «Arrivano diversi progetti. Parte dei lavori che abbiamo realizzato nascono da proposte spontanee. Noi diamo spazio, ma è importante che questo sia riempito in maniera artistica: ci deve essere qualcosa da dire. Questo significa anche spingere i ragazzi a dire attraverso l’arte qualcosa di concreto, un messaggio».

Quando l’arte si fa urbana, e la città diventa artistica, le pareti si dipingono. Ricerca artistica, storie da raccontare, messaggi da comunicare, slogan e provocazioni trovano spazio sui muri della legalità.

venerdì 27 aprile 2012

la menta sul pavimento

« Signor Presidente, quale sarà il futuro dei nostri bambini »? Andreotti non risponde, piega la testa e rimane immobilizzato in un ghigno per quasi un minuto, finché la conduttrice televisiva, dopo averlo più volte interpellato, lancia bruscamente la pubblicità. Questa scena ha colpito Elisabetta Terlizzi e Francesco Manenti: cosa sarà passato per la mente dell’anziano uomo politico? La domanda diventa inaffrontabile per chi si occupa da troppo tempo ‘ delle cose dei grandi ’? Quali immagini, quali sensazioni avranno immobilizzato il suo corpo? I due artisti di Progetto Brockenhaus, decidono di rispondere al quesito posto ad Andreotti con lo spettacolo La menta sul pavimento.
«Non si tratta di una risposta realistica, ma di un pretesto» – ci racconta Elisabetta, attrice drammaturga e regista insieme a Francesco. « La (non) risposta di Andreotti ci ha scioccato, ispirato e ci ha poi indotti a cercare nella sua mente».

Nasce così questo spettacolo del 2009, rappresentato per la prima volta in Svizzera questa sera, venerdì e domani, sabato, alle 21 al CambusaTeatro di Locarno. I due artisti ci accompagnano attraverso un viaggio surreale in uno spazio pressoché onirico, la materia grigia di Andreotti – menta sul pavimento – rappresentata in scena come una vecchia sala di conferenze: un tavolo e un vecchio cencio che fa da schermo. In questo scenario polveroso due marionette dal cuore umano ci raccontano la propria storia, con una piccola cassa da morto, dalla quale uscirà tutta la loro vitale visione, e quel «fardello che tutti ci portiamo appresso di vita e di morte».


La menta sul pavimento è un gioco di parole: una donna che si la-menta, e al contempo la freschezza rigenerante della menta, come i bambini. «Un ossimoro per portare in scena un gioco che da piccolo e superficiale si fa drammatico». Teatro, danza, video, pittura e fotografia si contaminano in un ensemble estetico che ci restituisce la poetica visione di Progetto Brockenhaus. «Noi non pensiamo mai a quali codici utilizzare ma usiamo tutto, al momento opportuno». Perché vedere questo spettacolo? Per la regista Terlizzi « perché tocca temi importanti, come quello del futuro dei bambini, perché è divertente poesia, perché il disegno luci di Mara Cugusi lo ha reso magia ».

giovedì 5 aprile 2012

poesia rap


da 'La Regione' del 5.4.2011

Le parole suonano una dietro l’altra e vanno diritte al cuore, là dove si annidano le emozioni. La musica pulsa, il ritmo rimbalza, le rime fanno eco ai battiti, in un rap dove non mancano incursioni liriche. Andee (Andrea Spinedi) cattura semplicemente le immagini che lo circondano e le traduce in poesia nell’album Metafora , in uscita il 9 aprile nei negozi di dischi. Il poeta rap però non si occupa solo delle parole, che sceglie e pesa con estrema cura: « So che emozione voglio dare e comincio a creare la base musicale. Quando questa è una bozza, scrivo, e poi comincio a cucire » ci spiega.
L’album, prodotto dalla neonata casa Monsterstune, mixato da Marco Zangirolami (tecnico e musicista che collabora con Fabri Fibra, Dargen D’Amico, Two Fingerz) al Noize Studio di Milano e masterizzato in uno degli studi più importanti d’Italia, il Massive Art, è frutto di un anno di lavoro tra concepimento, scrittura e registrazione. Un viaggio che l’artista ticinese ha compiuto in collaborazione con quattro altri musicisti, Lu, Ene, NayG e Bri dei Neim, per raggiungere un sogno che non ce la faceva più a stare in un cassetto « insieme ai calzini ».


« Nonostante la vita ti riservi esperienze dolorose non devi mollare mai e cercare di realizzare i tuoi sogni perché solo così puoi vivere serenamente », continua Andee parlandoci di Metafora.



Tutti i brani dell’album sono immagini, metafore per spiegare la necessità di vivere quella vita che abbiamo sempre sognato, senza accontentarci di un surrogato. Ce lo racconta un musicista che sin da piccolo ha dovuto fare i conti con la sindrome di Marfan, una malattia genetica che gli ha causato alcune limitazioni ma, come ci racconta, « non ha spento la mia voglia di realizzare un sogno ». Nella sua musica questo aspetto è presente sin dalle prime note, ma viene sempre proposto come trampolino di lancio verso l’autorealizzazione. Andrea lavora come web-designer e per realizzare questo disco ha passato le notti in studio di registrazione. Non si è mai fermato, e gli chiediamo se, secondo lui, questo sia legato al suo problema: «È una domanda che mi sono posto spesso. Sì, ci vuole una spinta. C’è chi comincia a scrivere perché la ragazza l’ha lasciato o perché ha avuto un incidente. E c’è chi scrive perché ha paura di non potersi esprimere totalmente. Quello che io ho vissuto, e che sto vivendo, mi ha fatto capire che non posso fermarmi. Non posso restare lì a guardare senza che la gente possa sentire quello che ho da dire. Ma credo anche che questo impulso non lo insegni nessuno, o ce l’hai o non ce l’hai ».
Metafora è anche il titolo del singolo che ha lanciato il disco, e si può scaricare dalla pagina di Andee facebook.com/andeemetafora. « È il pezzo che più mi rappresenta. Parla di sogni, da mai buttare via, di amore, l’importanza di avere accanto una persona che non perda mai l’entusiasmo di fantasticare, e della necessità che ha il mio cuore di trasmettere qualcosa, anche se finisce di battere. Questa è l’essenza. Parlo di una maglietta che non oso indossare per paura che lavandola il cuore stampato si cancelli, è esattamente questo ».
Nell’album c’è anche la voglia di una vita piena al di là dell’oceano, a New York , la continua ricerca di nuovi ideali da raggiungere ( Foolish ), il rapporto con un padre ( The Heart ), la paura di un amore in crisi ( In mutande ), il mondo del lavoro che ci inghiotte ( La fatina dei denti eMa però ), la malinconia che si prova alla fine dell’ Estate .
E in tutti i brani, tra entusiasmo, poesia e ironia, traspare sempre quella voglia del poeta di « ballare sul sole, mentre il mondo va a letto ».

sabato 31 marzo 2012

il cinema d'autore nel web - ogni giovedì

da 'La Regione' del 31.3.2011


«Andiamo. Sì Andiamo. (Non si muovono)» . L’attualità del celebre finale di Beckett quando si parla di giovani che non hanno il coraggio, di partire, di andare, restando imprigionati in una statica atmosfera di indecisione e paura. È con questa citazione che si apre la ‘webseries’ Bymyside (online da giovedì 29 marzo il primo episodio su Youtube) che, con un linguaggio innovativo e di qualità, ci racconta la storia di tre trentenni che devono fare i conti con la sparizione del cantante del loro gruppo rock.


Passano le nottate appoggiati all’entrata di un grande supermercato di periferia, tra birre, skate, recriminazioni e domande. Lo sguardo della camera è fisso sulle vite di questi tre amici, senza retorica, senza presa di parte, senza mutamenti, come le luci.
Saranno loro, Teo (Pier Luigi Pasino), Bozo (Jacopo Bicocchi) e Sparo (Matteo Alfonso, che in Ticino ha iniziato a collaborare con Cambusa Teatro di Locarno), che a poco a poco faranno emergere la loro voglia di riscatto, o rispettivamente il vuoto dal quale si sentono invasi, svelando anche il mistero legato alla scomparsa di Flippo.


Il film è stato prodotto, diretto e co-sceneggiato da Flavio Parenti (nel ruolo di Flippo), attore italiano emergente che vedremo prossimamente sul grande schermo nel nuovo film di Woody Allen, To Rome with love . Abbiamo intervistato il regista di Bymyside incuriositi dal fenomeno di questa ‘webseries’ che, in un mese dal suo annuncio sulla rete attraverso i social network e il sito ufficiale, conta già migliaia di fan. Questo grazie anche alla comunicazione creata attorno all'evento, volta a alimentare continuamente l’aspettativa per un prodotto di qualità (dagli attori al montaggio) distribuito in maniera assolutamente non elitaria.

Come nasce questo progetto?
«Nasce da una realtà che ha vissuto l’autore, Pier Luigi Pasino. Ha radicato in sé quella sensazione e ha poi scritto il testo, inizialmente per il teatro. C’era una bella necessità, voglia di raccontare quella staticità. Insieme abbiamo co-sceneggiato la stesura cinematografica».

Quello che colpisce è soprattutto l’atmosfera...
«Sì, si entra a poco a poco nell’umanità dei personaggi. Soprattutto si tenta di scavare a fondo i motivi per spiegare quello che è successo. È profondo. E questa profondità si fonde in uno strano connubio con un meccanismo di fruizione in pillole, veloce, superficiale».

È questo che piace del vostro progetto. La gente che fruisce dei prodotti veloci di Internet non per forza è alla ricerca di prodotti superficiali, anzi.
«Sono d’accordo. Siamo a un bivio. Il virale è quanto di più visto, tutti si sono spinti in una fruizione usa e getta, che funziona, ma quanto hai fatto non serve poi all’umanità. Siamo in un momento in cui possiamo ancora mostrare che si può fare anche dell’altro attraverso la rete. Se il nostro esperimento piace, si creerà forse un nuovo ramo di Internet, fatto di contenuti anziché viralità. Penso che sia fondamentale per non trovarsi tra vent’anni unicamente con del marketing senza la narrazione, niente catarsi e solo vendita».

Questo è un anno particolarmente produttivo anche per la tua professione d’attore...
«Ciò che sto facendo adesso, Un matrimonio di Pupi Avati, è una delle esperienze più belle. Passo dall’essere ventenne a settantacinquenne, e attraverso tutte le fasi della vita.
Ma in fondo tutte le esperienze hanno qualcosa. Dipende anche da quanto tu sia aperto in quel momento e predisposto ad accettarle. Lavorare con Tilda Swinton ( Io sono l’amore di Luca Guadagnino) piuttosto che con Murray Abraham e Peter Greenway ( Goltzius and the Pelican Company ) o Woody Allen, sono tutte esperienze strepitose».

E com’è stato lavorare con questi due grandi registi?
«Greenway è molto gentile. Lo incontri alle otto di mattina, alle tre di notte o a mezzogiorno ed è sempre uguale. Una specie di costante, la stessa energia. Ma quando lavori sei in un caos creativo impressionante. Lavorare con Woody Allen è meraviglioso, non è solo un grande regista, ma un inventore, un autore strepitoso. Recitare con lui, avere degli scambi di battute, è stato incredibile».
E per tornare al mondo che Flavio Parenti ha creato attraverso Bymyside , la voglia di andare e la paura di restare sono on line. Un cinema d’autore in tredici episodi che racconta lo smarrimento e l’anima rock della nostra generazione. «Te ne vuoi andare? Dove? Non lo so, dove mi fanno fare quel che ho voglia di fare. E che cosa hai voglia di fare? Qualcosa che mi fa star bene».

venerdì 16 marzo 2012

Teatro: artigianato e umiltà - Teatro d'Emergenza

Che il teatro sia anche artigianato, e quindi sapiente utilizzo del proprio corpo per far vivere i personaggi ed emozionare il pubblico, è un concetto che oggi spesso viene dimenticato. Ma l’idea di un teatro riportato a sé aveva già rivoluzionato gli inizi del Novecento. Gli attori iniziavano allora a essere considerati, dal celebre teorico Gordon Craig in poi, abili maestri dello strumento più importante che avevano, il corpo, dai cui gesti scaturiva la parola.
Questo si definiva artigianato teatrale: tornare ai propri, semplici, strumenti e reimparare a usarli. Nel panorama scenico odierno, purtroppo, sempre più raramente si incontrano attori che hanno l’umiltà di definirsi ancora artigiani del proprio mestiere. Tra questi pochi ci sono Luca Spadaro e Massimiliano Zampetti, 19 anni di lavoro in comune e in continua ricerca, e 23 spettacoli all’attivo come Teatro d’Emergenza.
« Max e io abbiamo sempre avuto una visione molto artigianale di questo mestiere – ci racconta il regista Luca Spadaro –, non so se ogni tanto abbiamo avuto la benedizione divina di fare arte. Noi partiamo facendo dell’artigianato, solido, ben fatto, con la cura del dettaglio. Se si trasforma in arte, bene, altrimenti sarà comunque stato utile ». Abbiamo incontrato la compagnia Teatro d’Emergenza, in scena da stasera al 18 marzo al Foce con Il custode di Pinter (foto), che ci ha fatto partecipe della propria personale visione della scena luganese; scena che per i due attori ha rappresentato agli esordi anche un percorso di formazione
« Abbiamo iniziato lavorando con Coco Leonardi – continua Spadaro –. Negli anni Novanta non c’era tutta quell’enfasi di apparire, andare a tutti i costi su un palco. O facevi l’accademia, o facevi esperienza, e quest’ultima te la guadagnavi. C’era l’umiltà di farla senza essere professionisti. Eravamo ragazzi che stavano provando in piccolo, e accanto avevamo la possibilità di lavorare per le compagnie luganesi, che all’epoca erano poche, ma soprattutto stupende con noi ragazzi. Il Teatro Pan, delle Radici e Sunil: ci offrivano gli spazi, i consigli, e la possibilità di fare i diversi lavori attorno al teatro (attrezzista, aiuto luci, aiuto fonico). Questa è stata parte della nostra formazione. Facendo i nostri esperimenti, tra di noi, e con l’aiuto delle persone di allora: Vania Luraschi, Daniele Finzi Pasca, Cristina Castrillo, che erano adorabili, generosi. Oggi la situazione è cambiata, ci sono più attori che spettatori, e un altro modo di approcciarsi a quest’arte ».
In che senso? «Oggi tutti vogliono salire sul palco, non importa come e con quale esperienza. Noi cerchiamo di far capire che per essere attori non basta fare un corso serale, bisogna lavorare! Si vuol provare a tutti i costi l’emozione di andare in scena. Ma l’emozione va data al pubblico, non a se stessi».
La differenza tra amatorialità e professionalità sta proprio in questo lavoro... «Una volta era molto marcata questa differenza. Noi abbiamo continuato a non definirci professionisti molto dopo aver iniziato a ricevere finanziamenti. Oggi si perdono anche la qualità e la richiesta del pubblico, che ormai si adatta a tutto. C’è dispersione, non si sa più giudicare buoni o meno gli spettacoli, a volte sembra che tutto qui sia meraviglioso. Ma io questa gran meraviglia non la vedo sempre».
La meraviglia di uno strumento artigianale, il corpo dell’attore, che se usato con cura e dovizia non smetterà mai di emozionare il proprio pubblico, forse più di declami e scintille.

Il custode
«In Pinter i personaggi potrebbero essere fotografie scattate la mattina in una qualunque città, appoggiate su un palcoscenico la sera e lasciate lì a deformarsi sotto la luce dei riflettori». Così anche i tre protagonisti della pièce ‘Il custode’, dramma del 1960 di Harold Pinter.
Max Zampetti, nel ruolo di Davis, ci racconta lo spettacolo, dove il vecchietto che rappresenta si affida alle cure di un uomo più giovane, Aston (recitato da Silvia Pietta, una donna, volta a creare lo straniamento voluto dal regista per la messa in scena), che lo salva da una rissa. Più tardi sopraggiungerà il violento fratello maggiore Mike (Mirko D’Urso), al quale nonostante le aggressioni Davis chiederà protezione.
«La sintesi dello spettacolo è che troppo spesso ci mettiamo nelle mani di persone violente, che riteniamo ci possano proteggere perché più forti, ma non forzatamente più generose. Pinter è lucidissimo nella scrittura, crea una drammaturgia dove tutti gli elementi sono presenti. Un drammaturgo attore, chiarissimo nella sua complessità. È un nostro autore guida, studiato da anni, ma mai messo in scena. Questo suo testo nasconde un forte discorso politico: ci svela come siamo, con aggraziata ironia».